I Corpi Minori del Sistema Solare      -     Gli Asteroidi


L'origine

La scoperta

La ricerca sistematica di una regola chiara che rendesse ragione delle distanze dei pianeti dal Sole sembrava aver trovato alla fine del secolo XVIII la definitiva risposta nella legge empirica di Titius-Bode (d = 0.4 + 0.3 x 2N con N = -oo ; 0; 1; 2; 3;...) anche grazie alla scoperta di Urano, casualmente identificato da W. Herschel il 13 marzo 1781, la cui distanza rispondeva perfettamente a tale legge.
Questa semplice relazione, formulata da J.D. Titius von Wittenberg (1729-1796) e resa popolare da J.E. Bode (1747-1826), sintetizzava in modo semplice ed elegante le conoscenze raggiunte circa le distanze planetarie.
Si manifestava, però, una inspiegabile lacuna in corrispondenza del valore N=3.
La considerazione che godeva la legge di Bode era, però, così alta che, nel 1800 il barone Franz von Zach riunì a Lilienthal un gruppo di sei astronomi (il gruppo era chiamato Himmel Polizei) proprio con l'intento di organizzare una accurata ricerca di questo pianeta mancante.
Quando poi, il 1° gennaio 1801, il Direttore dell'Osservatorio di Palermo (padre G. Piazzi), casualmente, scoprì l'esistenza di un pianeta sconosciuto (Cerere) i cui parametri orbitali gli facevano occupare il posto mancante tra Marte e Giove, i pochi dubbi sulla validità della relazione di Bode sparirono.
Ma per poco...
Nel giro, infatti, di 7 anni furono scoperti altri 3 corpi gravitanti alla medesima distanza (Pallade, Giunone e Vesta); nel 1868 erano un centinaio e nel 1890 trecento.
Grazie all'impiego delle tecniche fotografiche (doppie esposizioni, lunghe esposizioni oppure confronto tra lastre eseguite in tempi differenti) e delle tecniche digitali è stato possibile aumentare enormemente il numero conosciuto di questi corpi celesti: oggi ne sono noti oltre 40 mila le cui dimensioni variano da poche centinaia di metri a quasi 1000 km, ma il loro numero è destinato a salire vertiginosamente.
A tale proposito è significativo un grafico (per i piccoli diametri evidentemente teorico) che mette in relazione il numero di oggetti del Sistema Solare con le rispettive dimensioni (Figura 1 - Lang e Whitney, Vagabondi nello spazio, pag. 206, fig. 7.15)
Figura 1 - Oggetti del Sistema SolareLa difficile individuazione di questi oggetti celesti è chiaramente imputabile alle loro ridotte dimensioni angolari, che risultano confrontabili con la massima risoluzione consentita agli strumenti ottici in nostro possesso dalla turbolenza atmosferica.
E opportuna, a questo punto, una breve digressione sui metodi osservativi utilizzati per lo studio di questi oggetti celesti e dei Corpi Minori in generale.
Il più antico è certamente l'osservazione delle posizioni, che ha fornito alla Meccanica Celeste i dati necessari alla determinazione sufficientemente precisa dei parametri orbitali di molti asteroidi.
La numerazione progressiva con la quale (oltre al nome proprio) vengono indicati gli asteroidi viene assegnata solamente quando l'orbita è ritenuta nota in modo definitivo; fino a quel momento vengono identificati con una sigla provvisoria che indica il periodo della loro individuazione in cielo.
A fine dicembre 1996 il numero di asteroidi definitivamente numerati era di 7367 (De Meis e Meeus, 1997).
E grazie all'accurata rilevazione delle posizioni in cielo che Halley riuscì a studiare il cammino della cometa che porta il suo nome prevedendone il ritorno.
A proposito delle comete è inevitabile sottolineare, anche se potrà apparire scontato, che questi corpi celesti, proprio per la loro morfologia, presentino, a differenza degli asteroidi, una notevole visibilità; è forse proprio questo il motivo per il quale, fin dalle epoche antiche, hanno occupato un posto importante (anche se decisamente infausto) tra i fenomeni celesti.
A partire dal 1891, la ricerca di nuovi asteroidi è stata supportata dal metodo fotografico, soprattutto grazie all'opera di Max Wolf dell'Osservatorio del Königstuhl di Heidelberg (è di quell'anno la scoperta di 323 Brucia, primo asteroide individuato con tecnica fotografica).
Grazie all'impiego della tecnica fotografica ed al perfezionamento della strumentazione astronomica, l'aumento di scoperte è stato veramente impressionante: prima del 1891 erano noti 322 asteroidi, nel 1977 si era già a quota 2000, il no 3000 fu scoperto nel 1984 e si è giunti, nel novembre 1991, al no 5000. (Calanca et al., 1996).
Oggi siamo di fronte ad una nuova rivoluzione tecnologica: l'impulso proveniente dall'impiego dei C.C.D. e dall'analisi computerizzata delle immagini può essere paragonato a quanto è avvenuto nel secolo scorso con l'avvento dell'emulsione fotografica con, in più, la possibilità di automatizzare la ricerca grazie al blinking (cioè il confronto tra due immagini ottenute in tempi differenti) operato dal software.
Grande importanza ha l'osservazione spettroscopica alla quale è dovuto in gran parte il bagaglio di conoscenze sulla composizione mineralogica dei Corpi Minori.
Mentre per gli asteroidi si analizza la luce solare riflessa, per le comete a questa si sovrappongono le bande in emissione di molecole e radicali eccitati dalla radiazione solare.
Sempre sfruttando la luce solare riflessa, ricorrendo alle osservazioni fotometriche (curve di luce), si è riusciti, nel caso di molti asteroidi, a determinare con precisione il periodo di rotazione intorno al proprio asse ed avere una stima della loro forma.
L'analisi delle curve di luce disponibili (agli inizi degli anni 90 l'Asteroid Photometric Catalogue conteneva circa 5000 curve di luce di più di 700 asteroidi) suggerisce che la maggior parte degli asteroidi ha forme tutto sommato regolari (ellissoidi biassiali o triassiali) con poche strutture superficiali di grandi dimensioni responsabili di particolari variazioni delle curve di luce.
Alcuni oggetti, tuttavia, mostrano particolari andamenti delle curve di luce, riconducibili a forme irregolari e a variazioni di albedo (Dotto, 1996).
Valutazioni plausibili dell'albedo (praticamente il grado di riflettività della superficie del corpo celeste) sono possibili con il metodo radiometrico; si confronta la luminosità dell'asteroide in luce visibile con quella a lunghezze d'onda infrarosse valutando che un oggetto più scuro assorbe più luce, si riscalda maggiormente e perciò la sua emissione di radiazione termica è maggiore.
Da queste valutazioni dell'albedo, associate alla distanza (ricavata dallo studio dell'orbita) ed alla luminosità è stato possibile stimare le dimensioni degli asteroidi.
Nella tabella sono riportati alcuni dati (tra cui le stime dei diametri) relativi ai 10 asteroidi di maggiori dimensioni:

N.o Nome Dist. dal Sole
(106 km)
Albedo Diametro
(km)
Scopritore Anno
1 CERERE 413.9 0.10 913 Piazzi 1801
2 PALLADE 414.5 0.14 523 Olbers 1802
4 VESTA 353.4 0.38 501 Olbers 1807
10 HYGIEA 470.3 0.08 429 De Gasparis 1849
511 DAVIDA 475.4 0.05 337 Dugan 1903
704 INTERAMNIA 458.1 0.06 333 Cerulli 1910
52 EUROPA 463.3 0.06 312 Goldschmidt 1858
15 EUNOMIA 395.5 0.19 272 De Gasparis 1851
87 SYLVIA 521.5 0.04 271 Pogson 1866
16 PSYCHE 437.1 0.10 264 De Gasparis 1852

I valori dei diametri sono stati ricavati da: Hilton et al., 1996
Gli altri dati sono stati tratti (maggio 1996) da: http://bang.lanl.gov/solarsys/asteroid.htm

Un ulteriore grande balzo in avanti nelle conoscenze di questi corpi celesti si è avuto con l'introduzione di due nuovi strumenti di indagine: l'astronomia radar e l'esplorazione ravvicinata con sonde spaziali.
Dalla prima riusciamo ad ottenere informazioni apprezzabilmente corrette della forma e dello stato di rotazione dell'oggetto; la grossa limitazione è costituita dal fatto che l'efficacia di questa tecnica è fortemente dipendente dalla distanza Terra-corpo dal momento che l'eco radar (anche con gli apparati più potenti) fornisce informazioni utili in un range di distanze abbondantemente inferiori a 1 U.A., interessando dunque soprattutto quegli oggetti che hanno "incontri ravvicinati" con la Terra.
Per quanto riguarda l'impiego della tecnologia spaziale, bisogna notare che alle osservazioni satellitari (IRAS, ISO, HST), che hanno l'enorme vantaggio di poter by-passare l'ostacolo costituito dall'atmosfera terrestre, si sono affiancate le straordinarie osservazioni ravvicinate delle sonde.
Sicuramente è ancora vivo il ricordo delle sonde Vega e Giotto destinate a studiare la cometa di Halley (1986) e quello della sonda Galileo (1991) inviata verso il sistema di Giove, nonché i risultati osservativi da esse riportati.
Per dovere di cronaca, va ricordato, a proposito delle sonde, che la prima a dover attraversare la Fascia degli asteroidi fu la Pioneer 10, lanciata il 3 marzo 1972 con destinazione Giove.
Una particolare considerazione merita infine lo studio dei meteoriti, fino a 60 anni fa considerati oggetti interstellari, ma oggi collegati a ben precise situazioni dinamiche che portano ad identificare il più importante luogo della loro formazione nella fascia degli asteroidi, anche se vi è l'evidenza di meteoriti provenienti dalla Luna e da Marte ed è inoltre ben noto il ruolo svolto dai nuclei cometari nella formazione dei detriti cosmici.
Si tratta in ogni caso di corpi celesti in grado di fornirci informazioni indirette circa i corpi da cui hanno avuto origine non solo perché non ci è noto con precisione il loro luogo di provenienza, ma anche perché non conosciamo le condizioni in cui si è svolto il loro viaggio verso la Terra, ed inoltre dovremmo riuscire a rimuovere le evidenti modificazioni indotte dall'attraversamento della nostra atmosfera.


L'origine

Una prima ipotesi circa l'origine degli asteroidi (il termine è dovuto a Herschel, mentre Piazzi preferiva quello di pianetini) fu formulata da Olbers nel 1805, immediatamente dopo la loro scoperta, e può essere definita ipotesi del pianeta distrutto: proponeva infatti che l'intera fascia fosse stata generata dalla distruzione di un grosso pianeta causata da un impatto catastrofico con un altro corpo planetario.
Tale ipotesi riceveva forza anche dalla dimostrazione fatta da Chladni dell'origine extraterrestre delle meteoriti, identificate pertanto come i frammenti minori di quel gigantesco impatto.
E comunque molto difficile ipotizzare questo evento estremamente energetico senza mettere in conto il suo possibile pesante influsso sui pianeti più vicini, ed in tal senso appare veramente inspiegabile la "tranquillità" del sistema satellitare di Giove.
Scartata dunque l'idea di Olbers, come spiegare l'origine di questi corpi, tenendo conto anche della mancanza di materiale nella fascia degli asteroidi?
In verità i dati in nostro possesso relativi alla massa di questi corpi sono sufficientemente precisi (con una incertezza di circa il 10% o meno) solamente per tre asteroidi, vale a dire Cerere (9x1020 kg), Pallade (1.5x1020 kg), e Vesta (1.7x1020 kg); per tutti gli altri si hanno valutazioni più o meno attendibili basate sugli spettri e sulle stime di diametri e di densità.
Solamente per altri due asteroidi (Hygiea ed Interamnia) sono stati pubblicati lavori riguardanti la determinazione della massa, ma entrambe queste valutazioni sono caratterizzate da una incertezza di circa il 50%.
Un modo per determinare questo parametro fisico ci potrebbe essere offerto dal verificarsi di episodi di incontri ravvicinati tra asteroidi e dalle conseguenti perturbazioni orbitali; in questa direzione si è mosso il lavoro di Hilton et al. (1996) che ha fornito, partendo da un campione di 4583 asteroidi della fascia principale, i più favorevoli "incroci orbitali" nel periodo 1950-2017.
Ad ogni modo, stime attendibili fissano la massa complessiva della Fascia asteroidale in circa il 5% della massa lunare (ML = 7.35 x 1022 kg) e ciò significa che il contributo di Cerere ammonterebbe a circa il 33% del totale.
Si potrebbe tentare una prima e immediata spiegazione di questa carenza di materiale nella zona asteroidale ipotizzando una discontinuità presente nella nebulosa originaria, ma questa spiegazione non è ritenuta verosimile.
E invece ritenuto più ragionevole attribuire alla rapida formazione di Giove l'innesco di quel meccanismo di svuotamento che ha portato alla situazione attuale partendo, comunque, da una massa iniziale che si presume sia stata poche volte quella attuale (Taylor, 1992).
Attualmente l'ipotesi prevalente è perciò quella di un pianeta che non ha potuto formarsi a causa della pesante azione gravitazionale di Giove.
La nebulosa originaria era caratterizzata, come già detto, da una graduale diminuzione della temperatura all'aumentare della distanza dal Sole, ed è evidente che nella regione di Giove ci fosse certamente maggiore disponibilità di "nuclei di aggregazione" data la maggiore abbondanza di sostanze volatili presenti allo stato solido (snow line); più in generale si può ipotizzare che la formazione dei planetesimi sia avvenuta con ritmi diversi a differenti distanza dal Sole.
Questo significa che il processo di aggregazione di Giove era certamente più avanzato che non quello dei pianeti più interni (costituiti da materiali rocciosi) e di conseguenza era presente in modo determinante il suo influsso gravitazionale quando le fasi di costruzione dei pianeti più interni erano solo all'inizio.
Ricordiamo, come già detto, che il tempo di accrezione di Giove viene stimato in 105 anni (Ward, 1989), mentre quello dei pianeti interni in 107-108 anni (Taylor, 1992).
La rapida formazione del massiccio Giove, seguito da Saturno, avrebbe generato regioni di risonanza (Torbett et al.,1982) che, modificando gli elementi orbitali dei planetesimi presenti in quelle zone, avrebbero arrestato la fase di accrezione di un unico corpo nella regione della attuale fascia asteroidale (Taylor, 1992) innescando nel contempo un processo collisionale tuttora in corso (Farinella, 1988).
E indispensabile, pertanto, approfondire sia il meccanismo delle risonanze che il ruolo degli impatti: la loro azione è tuttora pesantemente presente.


L'azione delle risonanze

Il ruolo di Giove e delle sue perturbazioni gravitazionali fu evidenziato fin dal 1866: risale a quell'epoca infatti la scoperta, da parte di D. Kirkwood, di vuoti (Figura 2 - Hartmann, I corpi minori del Sistema solare, pag. 262) nella distribuzione dei semiassi maggiori delle orbite degli asteroidi.
Confrontando i periodi corrispondenti a queste lacune con il periodo di Giove, Kirkwood ipotizzò la presenza di effetti di risonanza tra le orbite, responsabili, a lungo andare, di sostanziali modificazioni dell'orbita originaria.
Figura 2 - Lacune di KirkwoodTale ipotesi venne ripresa ed approfondita negli anni '80, periodo caratterizzato anche da un notevole aumento di interesse per lo studio degli asteroidi, fino ad allora considerati in modo abbastanza marginale.
La necessità di inglobare nelle teorie dinamiche anche l'analisi degli asteroidi di tipo Amor, Aten e Apollo caratterizzati da orbite particolarmente eccentriche spinse ad approfondire i meccanismi responsabili dell'evoluzione orbitale e, al primo posto tra questi, proprio i fenomeni di risonanza.
Con il termine risonanza si intende quella situazione dinamica in cui le configurazioni delle orbite di due corpi celesti si ripetono periodicamente nel tempo.
Il risultato dinamico prodotto dai fenomeni di risonanza non è univoco, ma si può manifestare sia come stabilizzatore nel tempo della configurazione, sia come causa di oscillazioni periodiche dei parametri orbitali, ma può anche sfociare in variazioni improvvise ed imprevedibili dei suddetti parametri.
Seguendo con simulazioni dinamiche il comportamento di un asteroide prossimo ad una zona di risonanza si è potuto constatare come la sua orbita, stabile per molte migliaia di anni, venga improvvisamente ed imprevedibilmente modificata fino a portarla ad incrociare quella di Marte o della Terra contribuendo in questo modo ad aumentare una delle lacune di Kirkwood e, più pericolosamente per noi, l'eventualità di una collisione.

Fondamentalmente si distinguono due tipologie di risonanza:
  1.  risonanza di moto medio, che ha nel fenomeno delle lacune evidenziato dall'analisi di Kirkwood e riconducibile all'azione di Giove l'esempio più eclatante.
I due corpi risonanti sono caratterizzati dall'avere i periodi orbitali legati tra di loro da rapporti numerici semplici, ed è questo rapporto numerico il modo comunemente utilizzato per indicare una risonanza di questo tipo.
I risultati dell'azione di queste risonanze sono molteplici e talvolta i dati reali discordano con la situazione ottenuta attraverso simulazioni al calcolatore.
Per la risonanza 2:1, ad esempio, le simulazioni numeriche non prevedono meccanismi di espulsione efficienti, mentre in realtà si osserva una larga lacuna e questo porta a dover ipotizzare meccanismi dinamici (o sovrapposizioni di più effetti) per i quali i tempi caratteristici siano decine o forse centinaia di milioni di anni (Farinella, 1993).
  2.  risonanze secolari, consistenti nel fatto che i due corpi risonanti sono caratterizzati da uguale periodo nella variazione dell'orbita nello spazio, vale a dire la precessione del piano orbitale e la precessione della direzione del perielio.
I tempi caratteristici degli effetti indotti da queste risonanze sono valutabili in milioni di anni, ma hanno una efficienza confrontabile con quella delle risonanze di moto medio.
Certamente un notevole passo in avanti nella comprensione del fenomeno delle risonanze si è compiuto con l'introduzione delle simulazioni computerizzate, ma non sempre si riesce a ricostruire in modo completo le leggi che governano le zone di risonanza anche se la simulazione, grazie all'aumentata capacità di calcolo consentita dai computer più recenti, può essere spinta su periodi di centinaia di migliaia di anni.
Il problema di fondo è la sovrapposizione, spesso in modo caotico, di molte risonanze differenti con risultati altamente imprevedibili.
E in ogni caso innegabile il ruolo di rimescolamento orbitale generato da questi fenomeni, con il conseguente incremento del numero degli eventi collisionali non solo tra la popolazione asteroidale, ma anche con corpi di maggiori dimensioni quali i pianeti ed i satelliti.
Il quadro generale dell'azione dei meccanismi di risonanza può essere così delineato: sia le risonanze di moto medio sia alcune risonanze secolari (prima tra tutte la risonanza ni6) "pompano" in modo formidabile l'eccentricità dell'orbita degli asteroidi su una scala temporale dell'ordine del milione di anni.
Tale incremento dell'eccentricità è molto regolare nel caso della risonanza secolare, mentre nel caso delle risonanze di moto medio (soprattutto la 3:1 e 5:2 con Giove) risulta estremamente irregolare.
L'aumento del valore dell'eccentricità finisce praticamente con il trasformare le orbite da quasi circolari (confinate tra Marte e Giove) a fortemente ellittiche e ciò può comportare, talvolta, che le nuove orbite attraversino quelle dei pianeti, Terra compresa.
Ed è proprio il passaggio ravvicinato accanto ai pianeti un efficiente meccanismo dinamico in grado di "estrarre" un asteroide dalla sua orbita risonante; il fly-by (tecnica utilizzata spesso anche nel caso di esplorazioni spaziali quale sorgente di energia necessaria a lanciare la sonda su un'orbita differente) è infatti in grado di modificare sia il valore del semiasse sia l'eccentricità dell'orbita.
Un altro meccanismo che ha mostrato di interagire con l'azione delle risonanze è quello collisionale; nel caso di eventi particolarmente violenti, del tipo di quelli che incontreremo parlando delle famiglie dinamiche, l'energia dell'impatto è sufficiente a lanciare i frammenti in una risonanza.
Questa situazione viene indicata con il termine di immissione diretta, mentre se l'azione di assorbimento è graduale si indica con il termine di cattura adiabatica.

Un evento catastrofico qual è quello responsabile della creazione di una famiglia dinamica non produce solamente corpi di grandi dimensioni (la cui presenza è, spesso, l'unico indizio in nostro possesso che ci possa consentire di ricostruire l'accaduto), ma anche, inevitabilmente, detriti di ogni dimensione, che l'osservazione non riuscirà mai ad identificare e che, non necessariamente, sono destinati a riaggregarsi attorno ai corpi maggiori: sono questi, evidentemente, gli oggetti più facilmente immessi nelle risonanze e da queste convogliate quale materiale meteorico anche nelle regioni più interne del Sistema Solare (Morbidelli et al., 1996).
In alcuni casi è stato possibile ricondurre un evento meteorico alla famiglia dinamica con la quale sarebbe accomunato: è il caso delle eucriti riconducibili alla famiglia dinamica di Vesta (Taylor, 1992) e delle condriti ordinarie per le quali si è proposto uno strettissimo legame con la famiglia dinamica di Maria (Zappalà et al., 1997).
Molte famiglie dinamiche risultano "troncate" ai bordi di alcune risonanze di moto medio; è il caso, ad esempio, della famiglia di Themis, collocata in prossimità della risonanza 2:1 con Giove, che risulta chiaramente delimitata dalla risonanza stessa suggerendo in modo chiaro che molti oggetti originatisi al momento dell'evento catastrofico progenitore siano stati rimossi dalla sua azione.
Una situazione dinamica particolarmente significativa è quella corrispondente alla regione dei Tauridi (argomento sul quale ritornerò parlando di 4179 Toutatis): i corpi che la popolano sono soggetti a notevoli azioni perturbative dei pianeti e questo comporta la loro rapida eliminazione, che si concretizza nella collisione con il Sole o con i pianeti o nell'espulsione dal Sistema Solare su orbite iperboliche.
Ed a questo proposito va sottolineata l'importante azione del Sole: nelle simulazioni si sono registrati molti impatti con la nostra stella prima che gli oggetti potessero colpire la Terra, configurando in tal modo una sorta di "azione protettiva" nei nostri confronti (Morbidelli, 1997 b).


Il ruolo degli impatti

Già si è avuto modo di evidenziare la presenza e l’importanza delle collisioni quale meccanismo fondamentale per l’accrezione dei planetesimi fin dalle prime fasi della formazione dei pianeti, ed è ragionevole ipotizzare il permanere di tale meccanismo anche dopo che i corpi maggiori si erano completamente formati.
La presenza di grandi crateri sulle superfici planetarie e dei satelliti costituisce, in questo senso, una evidenza diretta dell’esistenza di planetesimi di varie dimensioni e del fatto che l’accrezione planetaria è avvenuta secondo un meccanismo di tipo "gerarchico" e non dall’ammassarsi di polveri.
Anche la stessa obliquità dei pianeti è consistente con la collisione di corpi molto grandi; se i pianeti si fossero formati per accrezione dal disco di polveri oppure soltanto da piccoli oggetti, il loro asse di rotazione sarebbe perpendicolare al piano dell’orbita, trascurando evidentemente l’azione di oggetti grandi che avrebbero potuto influenzare l’assestamento mareale.
Vale la pena sottolineare come il fenomeno abbia coinvolto anche i pianeti più massicci e non solo i pianeti terrestri; nell’ipotesi planetesimale dell’evoluzione del Sistema Solare tali impatti costituiscono pertanto un fenomeno globale, ubiquitario, iniziato con l’accrezione dei grani, ma che via via ha coinvolto oggetti sempre più grandi fino a giungere ad impatti estremamente violenti quali quelli che hanno interessato Urano (letteralmente "adagiato" sul suo piano orbitale), Venere (con l’inversione del senso di rotazione), Mercurio (svuotato del suo mantello di silicati) e la nostra Terra allorchè si è originata la Luna.
Con l’energia associabile ad un evento di impatto è possibile, inoltre, spiegare il fenomeno della fusione dei pianeti di tipo terrestre con la separazione del nucleo e del mantello.
Il passaggio attraverso una fase di impatti estremamente violenti nel corso degli eventi che hanno portato all’accumulazione dei pianeti di tipo terrestre è stato oggetto di una simulazione numerica (Wetherill, 1985) ed i risultati ottenuti concordano con l’attuale distribuzione dei corpi planetari del Sistema Solare.
E’ ipotizzabile un’epoca di impatti estremamente violenti a velocità di circa 9 km/sec tra corpi dotati di massa corrispondente a più di tre volte quella di Marte.
Si ritiene, però, che i fenomeni di riscaldamento da impatto in grado di consentire (assieme alla produzione termica indotta dai decadimenti radioattivi) la differenziazione del nucleo metallico nei pianeti terrestri non siano circoscrivibili solo al momento di maggiore intensità dei fenomeni collisionali durante lo stadio finale dell’accrescimento planetario, ma avrebbero accompagnato l’intero percorso evolutivo.
Anche sulla Terra, certamente con evidenza meno marcata, è possibile identificare molti crateri da impatto, vere e proprie cicatrici lasciate sulla crosta del nostro pianeta dall’urto con un oggetto esterno; ma questo argomento è oggetto di una specifica trattazione (si veda a tal proposito la mia Impact Page).
Come è facilmente intuibile, i fenomeni di tipo collisionale non possono non aver interessato anche la fascia asteroidale, anzi, l’azione gravitazionale di Giove ed il caos dinamico indotto hanno comportato senza dubbio un incremento degli episodi di impatto tra planetesimi che, per la loro vicinanza, risentivano maggiormente dell’influenza del pianeta gigante.
Volendo analizzare i meccanismi ed i parametri fisici coinvolti in un impatto tra oggetti delle dimensioni di un asteroide, ci si imbatte però in notevoli difficoltà legate soprattutto all’enorme quantità di parametri da gestire, ed è pertanto indispensabile cercare di acquisire informazioni attraverso la realizzazione e lo studio di esperimenti di impatto effettuati in laboratorio.
L’applicabilità, poi, delle informazioni raccolte al caso specifico degli asteroidi è resa comunque problematica da due fattori:
  a.  bisogna estrapolare i risultati sperimentali ed applicarli ad oggetti di massa di 15-20 ordini di grandezza maggiore;
  b.  non possono essere trascurati gli effetti gravitazionali, che, nel caso degli asteroidi, diventano molto importanti per i residui dell’impatto.
Non tutti gli impatti, infatti, producono gli stessi effetti; se un asteroide con diametro di 10 km venisse colpito da un proiettile con dimensioni di 1/10 delle sue verrebbe completamente distrutto ed i frammenti dispersi.
Se, invece, fosse un asteroide di 1000 km il bersaglio e, come prima, il proiettile avesse dimensioni di 1/10 del bersaglio si assisterebbe ancora alla distruzione, ma, in questo caso, i frammenti verrebbero riaggregati dalla gravità originando un corpo con una struttura "a mucchio di detriti" (rubble-pile).
Appare comunque consolidato il fatto che i parametri fondamentali per uno studio del meccanismo delle collisioni sono l’energia cinetica del proiettile (E) e la massa del bersaglio (M).
In base a questi parametri vengono solitamente distinti 4 casi (Cerroni, 1986; Fujiwara, 1986):

  1.   CRATERIZZAZIONE (E/M < 106 erg/g): si verifica un "danno" solo superficiale.
E’ l’effetto riscontrabile sulla superficie di tutti i pianeti interni, dei satelliti nonchè di tutti gli asteroidi dei quali si è potuto avere una serie di immagini ravvicinate.
  2.   ZONA DI TRANSIZIONE (E/M < 107 erg/g): oltre alla formazione di un cratere si verifica anche una parziale asportazione di materiale dal bersaglio, in quantità dipendenti dal contenuto energetico dell’urto.
  3.   DISTRUZIONE PROFONDA o CORE-TYPE (E/M < 108 erg/g): viene lasciata intatta soltanto la zona più interna del bersaglio.
  4.   DISTRUZIONE TOTALE (E/M > 108 erg/g): il bersaglio viene completamente frantumato dalla collisione.

L’osservazione fisica degli asteroidi mostra esempi riconducibili a tutti questi casi; se fino a qualche anno fa la craterizzazione era dimostrabile solo per le superfici dei corpi maggiori, l’analisi ravvicinata di alcuni asteroidi e satelliti ha mostrato senz’ombra di dubbio la presenza, talvolta massiccia, dei segni provocati dagli impatti.
L’analisi spettroscopica degli asteroidi fornisce spesso indicazioni che permettono di ipotizzare che un corpo costituisca ciò che rimane della parte più interna di un oggetto frantumato da un urto.
L’idea, suggerita anche dall’analisi delle forme, che molti asteroidi possano essere caratterizzati da una struttura a rubble-pile è riconducibile, come già detto, proprio al meccanismo di riaccumulazione gravitazionale del materiale prodotto da un urto catastrofico.
Il caso statisticamente più frequente è, comunque, l’impatto tra due oggetti molto differenti tra di loro come dimensioni, urto che, praticamente, si traduce in un incremento della craterizzazione del corpo maggiore.
Un problema che si è presentato quasi subito ai ricercatori nell’applicazione dei modelli di impatto agli asteroidi è stato quello di conciliare l’esistenza di curve di luce periodiche (chiaro indice di una rotazione regolare) con l’evidente possibilità che un urto potesse indurre nel bersaglio un moto di precessione libera, cioè una rotazione che non avviene intorno ad uno degli assi principali d’inerzia del corpo.
Tale moto irregolare è stato talvolta descritto impiegando i termini, non propriamente corretti ma estremamente significativi, di "rotazione ubriaca" (Farinella, 1994) o di moto "a ruzzoloni" nello spazio (Harris, 1994).
Il problema di fondo era quello di valutare quanto tempo occorresse affinchè la rotazione abbandonasse tale stato irregolare e si stabilizzasse in una rotazione regolare.
Una prima risposta (Burns e Safronov, 1973) prevedeva che la regolarizzazione della rotazione avvenisse in tempi compresi tra 100 mila e 100 milioni di anni, dunque piuttosto brevi se paragonati all’età del Sistema Solare o comunque alla frequenza di collisioni sufficientemente violente.
Alla fine del 1992, dopo l’intensa campagna osservativa che aveva come obiettivo 4179 Toutatis (un asteroide Eart-crossing avvicinatosi a soli 4 milioni di km dalla Terra), apparve evidente la rotazione non regolare di questo asteroide, scoperta che suggerì di approfondire il lavoro di Burns e Safronov.
Harris (1994) verificò come la regolarizzazione del moto dipendesse strettamente sia dalle dimensioni che dal periodo di rotazione e talvolta potesse richiedere tempi più lunghi dell’età del Sistema Solare.
Mettendo in un grafico (Figura 3 - adattata da: Harris, Icarus, 107, pag. 210, fig. 1; 1994) questi valori per gli asteroidi di cui è stata finora osservata la curva di luce e tracciando i confini tra regioni del piano in cui ci si deve aspettare tempi di "regolarizzazione" differenti (linee diagonali), si può notare che quasi tutti gli asteroidi sono compresi nella regione caratterizzata da tempi più bassi, confermando in tal modo le prime valutazioni di Burns e Safronov.
Osservando, però, sul grafico la posizione di 4179 Toutatis e di altri asteroidi si può subito notare come i tempi necessari agli attriti interni di questi corpi per assumere una rotazione regolare sono effettivamente molto più lunghi dell’età del Sistema Solare.
Figura 3 - Grafico rotazione/diametro per 632 AsteroidiBisogna comunque sottolineare che, anche se nella fascia asteroidale i fenomeni di collisione sono stati più intensi di quelli verificatisi in altre zone del Sistema Solare (grazie alla già ampiamente citata influenza di Giove), la presenza di una crosta basaltica quale costituente della superficie di Vesta può essere considerata una chiara indicazione che gli impatti subiti da questo corpo non sono stati così frequenti da modificare in modo drastico la sua superficie, databile circa 4.5 miliardi di anni (Chapman, 1986; Taylor, 1992).
Questo non significa che Vesta abbia goduto di una sorta di immunità dagli impatti: studi recenti basati su elaborazione di immagini dell’HST (Thomas et al., 1997) hanno rilevato sulla superficie di questo asteroide, nella zona corrispondente al polo sud, un cratere profondo oltre 150 km il cui diametro misura 460 km.
Già questo cratere ha dimensioni rilevanti in senso assoluto, ma diventa veramente gigantesco se confrontato con le dimensioni complessive dell’asteroide, valutate in 580x560x460 km.
E’ all’evento che ha causato questo enorme cratere che viene ricondotta non solo la genesi di una famiglia dinamica, ma anche l’origine delle acondriti basaltiche, una classe di meteoriti (circa il 6% dei meteoriti che cadono sulla Terra) che comprende le howarditi, le eucriti e le diogeniti (HED).
E’ opportuno, in ogni caso, evidenziare come non si possa correttamente impostare un discorso relativo agli impatti ed al loro ruolo (anche evolutivo) per la popolazione asteroidale limitandosi unicamente al fenomeno della craterizzazione.
Assumono, infatti, importanza cruciale, e già si è detto qualcosa a proposito di Vesta, anche gli eventi più energetici: le immagini di Gaspra e Ida mostrano che questi corpi sono morfologicamente simili a grossi detriti, ed alla stessa conclusione portano gli studi dei profili di Eros, Toutatis, Castalia, Geographos e di moltissimi altri asteroidi.
Da ciò deriva la necessità di prendere in considerazione le conseguenze degli impatti più energetici, riconducendo ad essi la formazione delle famiglie dinamiche.


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